La morte di Milan Kundera, lo scrittore ceco emigrato in Francia (1929-2023), ha aperto per un momento una finestra su un mondo, quello dei paesi del centro Europa, che la politica europea contemporanea fatica a comprendere.
Solamente un paio di anni fa, infatti, è stato pubblicato un volumetto, “Un occidente prigioniero”, che raccoglie due interventi in cui Kundera affronta il tema delle piccole nazioni, della loro cultura, del ruolo che hanno avuto e possono ancora avere nell’Europa di oggi.
I lunghi anni del dominio dell’Unione Sovietica, frutto della conclusione della seconda guerra mondiale e della spartizione dell’Europa concordata a Yalta dai vincitori, hanno introdotto il concetto di Europa dell’Est nel quale incasellare popoli e nazioni che a pieno titolo appartengono all’Europa centrale e che la storia ha voluto fossero quasi un vaso di coccio tra quelli di ferro rappresentato dell’impero russo/sovietico a Est e le ricorrenti mire espansionistiche tedesche a Ovest.
Non è qui il caso di approfondire il dramma generato dalla distruzione dell’impero austro-ungarico in cui le diverse nazionalità convivevano; interessa piuttosto recuperare l’esperienza culturale dentro la quale si forma un sentimento nazionale, si costituisce un popolo.
“Che cosa rappresenta in realtà l’Europa per un ungherese, un ceco, un polacco? Sin dalle origini, queste nazioni appartenevano alla parte d’Europa radicata nella cristianità romana. Partecipavano a tutte le fasi della sua storia.
Per loro la parola «Europa» non è un fenomeno geografico, ma una nozione spirituale, sinonimo di «Occidente». Nel momento in cui l’Ungheria non è più Europa, vale a dire Occidente, viene proiettata al di là del suo destino, della sua storia; smarrisce l’essenza stessa della sua identità.
L’Europa geografica (quella che va dall’Atlantico agli Urali) è sempre stata divisa in due metà che si evolvevano separatamente: l’una legata all’antica Roma e alla Chiesa cattolica (segno particolare: l’alfabeto latino), l’altra connessa a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa (segno particolare: l’alfabeto cirillico).
Dopo il 1945, il confine tra queste due Europe si spostò a Ovest di qualche centinaio di chilometri, e nazioni che si erano sempre considerate occidentali si risvegliarono un bel giorno constatando che si trovavano a Est. (Kundera, Un Occidente prigioniero)
E più avanti:
“L’identità di un popolo o di una civiltà si riflette e si riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che solitamente definiamo «cultura». Allorché tale identità è mortalmente minacciata, la vita culturale si intensifica, si acuisce, e la cultura diventa il valore vivo intorno al quale tutto il popolo si stringe. È per questo che, in tutte le rivolte centroeuropee, tanto la memoria culturale quanto la produzione contemporanea hanno svolto un ruolo così ampio e decisivo, come mai era accaduto prima in nessun’altra rivolta popolare europea.”
È da questo sentimento che nel secolo scorso hanno preso inizio rivolte come quella dì Budapest nel 1956 (stroncata dai carri sovietici tra gli applausi, tra l’altro, della maggior parte dei comunisti italiani), di Praga nel 1968 e poi in Polonia e ancora a Praga con l’esperienza di Charta 77 che fece conoscere , tra gli altri, Vaclav Havel, futuro presidente della Cecoslovacchia libera.
Un fermento culturale in cui la presenza della chiesa cattolica ha giocato un ruolo fondamentale: basti solo, pensare a figure come i cardinali Wyszynski e Wojtyla in Polonia o Mindszenty in Ungheria, ma anche a semplici sacerdoti come Josef Zverina , teologo tra gli ispiratori di Charta 77,autore di una lettera ai cristiani d’occidente in cui rimproverava l’assimilazione alla cultura del mondo.
Per capire l’Europa di oggi, e forse ancora di più per pensare quella di domani, forse sarebbe necessario recuperare storia e cultura di queste nazioni che sono state nei secoli smembrate e ricomposte dai vincitori delle diverse Guerre che si sono succedute nel territorio europeo.
Piuttosto che emarginare quei paesi che non vogliono aderire alla cultura dominante delle istituzioni europee (una cultura mondialista senza amore né rispetto delle identità dei popoli che vivono sul territorio europeo) un’Unione Europea realmente interessata al proprio futuro dovrebbe valorizzare le storie e la cultura di questa Mitteleuropa che ha dato scrittori, musicisti e artisti che ne arricchiscono il patrimonio culturale spezzando l’egemonia di un economicismo pervasivo e una montante nichilistica richiesta di nuovi diritti che sembrano rappresentare il solo orizzonte culturale possibile.
Più in generale l’attenzione a questa parte della cultura europea potrebbe aiutare a dare un senso anche nel nostro paese, a un concetto di nazione che si liberi dalle scorie lasciategli dal nazionalismo otto/novecentesco e dal fascismo per recuperare una storia che non è certo iniziata con la controversa realizzazione dello Stato Unitario ma che si comprende pienamente solo nel profondo legame delle diverse storie territoriali unificate dalla comune fede cattolica.
In questo senso l’anniversario manzoniano (con il lavoro fatto dal Manzoni sulla lingua italiana come strumento di una identità condivisa) sarebbe potuto essere un’importante occasione di riflessione sul l’unità reale del nostro paese che vive un momento in cui, almeno a giudicare dal dibattito politico, non sembra esserci possibilità reale di riconoscersi tutti come appartenenti a uno stesso popolo, a una stessa nazione.
Una politica senza cultura è oggettivamente debole, esposta a subire il potere dei più forti senza neppure accorgersene o reagire. La storia delle piccole nazioni della Mitteleuropa è solo un granello di sabbia nei grandi meccanismi degli imperi (ieri potenze militari oggi economico-finanziarie) ma offre una testimonianza alla verità e alla libertà senza le quali nessuna nazione può realmente prosperare.